TRAMA DI LA VEGETARIANA
La violenza produce sempre altra violenza o a volte anche dissenso, e questo come si manifesta? Che forma assume e chi coinvolge? Esiste una misura contenitiva per bloccarne il rapido dilagare?
Yeong-hye si fa scheletro e ossatura di tali domande. Capisce che esiste una gerarchia di male e di dolore, ne interpreta le sinfonie e si trasforma in ciò che vuole. Siamo in Corea del Sud, ogni famiglia è guidata da un patriarca. Non esistono prospettive che contano se non quelle degli occhi di chi desidera e possiede. Il potere è una questione di essere, non certo di fare. Si acquisisce e si eredita secondo una fitta sequenza di codici biologici inscritti alla nascita. Non domanda la sua origine, non chiede di mutare. È proprio dallo spettro maglino dell’immutabilità che Yeong-hye fugge. Prima è un sogno, poi è realtà. Un incubo terribile, di sangue e di pelle, di volti sconosciuti, di boschi fitti e oscuri. Tutto ha inizio una notte qualunque, di una serata qualunque, di una giornata qualunque. Il marito la trova in piedi davanti al frigo, completamente immobile mentre contempla un al di fuori. La mattina seguente sua moglie è diventata vegetariana. Così crede, colto di sorpresa da quel cambiamento improvviso di routine. La sua vita tanto ordinaria quanto la donna che aveva deciso di sposare, aveva ridiretto la sua rotta. La carne rappresenta il ricordo di quel sogno incessante che si estende ai momenti di veglia e riduce quelli di riposo. Dapprima è il rifiuto categorico di ingerire qualunque tipo di derivato animale a muovere la protagonista, ma il rigetto presto si trasforma in qualcosa di altro.

“È COSÌ TERRIBILE MORIRE?”
Han Kang ci regala un intenso e inquietante profilo della protagonista attraverso una complessa intessitura di visioni. Segue in tre atti la sua metamorfosi decodificando i linguaggi che caratterizzano ciascuno sguardo. Infiltrandosi nell’egoistica quotidianità del marito, salpando nei mari profondi di desiderio e perversione del cognato, fino ad approdare nella conturbante dimensione della sorella.
Yeong-hye si sposa con un uomo spaventato. La sua non è una scelta, ma un dovere. Un compito da assolvere. Un ruolo che assume senza opporsi, ma dal quale si mantiene estranea. Ha sempre saputo guardare oltre, per difendersi, ma quello sguardo si è spinto troppo in là e non è riuscito a trovare la via del ritorno. Forse non ha voluto. Uno dei primi dettagli che connotano la sua tacita assertività è l’abitudine a non portare il reggiseno, elemento che il marito, dedito all’approvazione altrui, non vede di buon grado, ma che decide essere innocuo e insufficiente a compromettere l’immagine di cittadino modello. Sua moglie rappresenta infatti un adorno, un biglietto da visita per quella che è la figura di encomiabile impiegato. D’altronde un uomo spaventato è anche un uomo spaventoso, e quando il fragile equilibrio del matrimonio si lacera, la forza del non detto si insinua a stravolgere l’assetto di dominio e di subordinanza, schema a capo di una precisa visione di mondo. E quell’infinitesimale stortura che è la scelta di abbigliamento di Yeong-hye inizia a raccontare una storia decennale di silenzi costretti, abusi psicologici e atti di alimentazione forzata.
Il cognato girovaga inappagato tra vita familiare e professionale. La prima al fine di espletare i suoi bisogni fisici e corporali, la seconda per dare sfogo a necessità interiori, manie e ossessioni che solo attraverso la sua arte possono trovare un canale di sfogo accettabile. Il lavoro è l’unico motore rombante della sua esistenza. Immerso tra ricerche, schizzi, mentre la pellicola della sua videocamera immortala nuovi ritratti, oblitera i suoi compiti di padre e marito. Yeong-hye rappresenta un esperimento. Riconosce in lei un essere fuori dalla norma, vagabonda in una landa abitata da persone che non la comprendono. Attraverso il suo corpo realizza il suo più grande capolavoro. Nella traversata però qualcosa cambia. Trova lo spettro di se stesso, o forse è solo la dimensione psichedelica nella quale si è fatto strada a rigettarlo, come si fa di un cibo disgustoso. E dal rigurgito che è lo smembramento di ciò che prima era intero, una diversa misura di esistere deve imparare a stare al mondo.
A ricomporre le macerie di un matrimonio, una moglie, una madre, una figlia e una sorella. Minatrice instancabile dell’anfratto cavernoso che incombe minaccioso su di lei. Primogenita di una famiglia tradizionale sud coreana. Ritratta mentre scava il sentiero che rende il cammino fruibile. Mentre barcollando nell’oscurità traccia delle linee per tirare fuori Yeong-hye dal labirinto in cui è sprofondata. Ma Yong-hye è la seconda di tre figli, vittima per eccellenza degli abusi del padre, vittima una seconda volta dei soprusi del marito, poi ultima carnefice e salvatrice di se stessa. Rimanere a galla non è facile, non quando un peso ti tira a fondo. Ma basta un solo cenno, uno sguardo che dica basta alla violenza, in ogni sua forma, per arrendersi completamente al corso naturale di tutte le vite. Anche quando il cammino accelera improvvisamente la sua andatura e quella velocità sembra togliere tempo prezioso, e altro non rimane che un’atroce domanda, pendente dalle labbra di chi glaciale la pronuncia: “È poi così terribile morire?”.
LEGGERE TRA LE RIGHE: UNA STORIA CHE VA OLTRE L’IMMAGINATO
Il corpo di Yeong-hye è un atto politico. La metamorfosi è l’estrema manifestazione della sua impenetrabile volontà. Niente può entrare in lei. Decide di diventare invisibile, perché al di fuori dello sguardo altrui, siamo finalmente liberə. La scrittura di Han Kang è scarna, sempre più simile alla magrezza della sua protagonista. Non comunica solo con le parole, proprio come Yeong-hye che parla pochissimo, perché la sua metamorfosi si serve di un linguaggio diverso. Riconosciamo negli altri ciò che cerchiamo in noi stessi, ma quello che Yeong-hye trova è agghiacciante, perché racconta una verità scomoda, una realtà a cui dare le spalle per paura di cambiare, per paura di perdere il privilegio.
L’autrice sembra denunciare una Corea del sud sempre più globalizzata e tecnologica, ma che porta dentro un sistema culturale ancora radicato nella misoginia, nella vergogna che le donne devono avere del proprio corpo, come di un monito che le perseguita dalla nascita e le accompagna fino alla morte. Un avvertimento che ogni persona non allineata all’idea che la società ha già prestabilito per lei ne subirà le conseguenze, e non potrà lamentarsene. Yeong-hye è quindi un’eroina controcorrente: rivendica i resti di sé che gli uomini non si sono ancora presi e lo fa infischiandosene del dolore che può causare, perché il suo è così assordante da non lasciare spazio di replica, e solo lei può sapere come intervenire. La sua pelle è un campo disseminato di indizi: l’infanzia di abusi, un padre violento, il rifugio nel bosco, così accogliente, così calmo. La ricomparsa nel bosco, non più come individuo, bensì come albero, vegetazione in mezzo a una landa di verde. Ritornare a uno stadio primordiale, come la macchia mongolica che la contraddistingue e che rappresenta una previsione di rientro, ma questa volta in un’altra forma, sotto un altro aspetto.
Yeong-hye non ha mai chiesto di essere salvata, se ne è andata, per non voltarsi più indietro.
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