LE BAL DES FOLLES: UNA RIFLESSIONE SULLE DONNE DELLA SALPÉTRIÈRE
Eugénie Cléry ha un dono, o forse una condanna: è in grado di parlare con gli spiriti. Un segreto tanto prezioso quanto pericoloso, capace di distruggere la sua vita se rivelato. Sarà proprio una imprudenza, il bisogno di essere finalmente vista e pienamente compresa, a farle confessare la sua pericolosa dote. Ingannata dalla nonna, viene rinchiusa all’ospedale della Salpétrière, celebre centro medico e psichiatrico parigino, fondato da Luigi XIV e attivo fino ai giorni nostri. Nella struttura sono confinate centinaia di donne: giovani e anziane, sane e malate, mitomani, ladre, depresse; ma anche donne indipendenti, rivoluzionarie, femministe, considerate minacce per l’ordine patriarcale. Sono cittadine che rappresentano lo scarto della società ottocentesca, che si nasconde tra le pieghe di una dilagante ipocrisia, si regge su un tessuto sociale fatto di apparenze, e di una netta, conveniente divisione di classe. Esiste una piramide al cui vertice ricchi e bianchi borghesi regnano sovrani, una vetta che d’altronde, una donna, benestante e privilegiata che sia, può solo osservare da una adeguata distanza di sicurezza.
LE ALIENATE
Tra le mura della Salpétrière le pazienti diventano delle alienate: estranee alla società che le ha formate, soggetti al contempo fragili e pericolosi, qua la sottile ambiguità che circonda queste identità. Sul modello del celebre ciclo pittorico degli alienati di Géricault, Mélanie Laurent, regista e attrice di Le bal des folles, tratto dal romanzo di Victoria Mas, restituisce nello schermo grande umanità ai volti che lo dominano, ritraendo la profonda ingiustizia a cui le donne sono sottomesse fin dall’infanzia.
Ma cosa è l’alienazione se non la percezione di un totale distacco dalla realtà? Queste donne sentono il bisogno di scappare da qualcosa, da qualcuno che le opprime, le violenta, le relega in uno spazio che non le appartiene. Allora in quei momenti, forse essere alienata salva dalla pretesa di una vita che non è la propria, allora in quei momenti, diviene unico antidoto alla perdita di sé.

Eugénie entra nel dormitorio, i letti distanti l’uno dall’altro formano un percorso labirintico nel quale decine di corpi si alzano, si vestono al mattino, mangiano durante i pasti e a cui fanno ritorno di notte. Le infermiere si occupano di far rispettare la rigida routine. Accompagnano e assistono le pazienti affinché ogni loro esigenza possa compiersi, le sostengono durante le prove mediche e le sessioni di ipnosi alle quali sono sottoposte sotto lo sguardo invadente dei dottori, ma il loro ruolo vale molto più di quello dei medici che esaminano e diagnosticano. Lo dimostra la figura di Genevive, capo infermiera la cui apparente severità si spezza e si modella alle pene e alle necessità delle sue richiedenti. Una donna che conosce le privazioni di una società che non favorisce, non sostiene nel perseguimento delle proprie aspirazioni, ma incatena ogni esistenza femminile a un ruolo prestabilito.
Così, tra le anime rinchiuse alla Salpétrière, un labile sentimento di solidarietà va pian pian crescendo quanto più la trama lega le vite delle sue protagoniste. La storia di Genevieve si intreccia inestricabilmente con quella di Eugénie, sarà proprio la giovane internata a comunicare con la sorella defunta della prima, permettendole di ricongiungersi finalmente a lei, in un percorso di de-costruzione e perdono.
L’IMMOBILITÀ COME FORMA DI CONTROLLO
Victoria Mas spiega magistralmente come, in sala d’esame, tra il dottore e il paziente si instaura un intricato rapporto di potere: il primo valuta la sorte dell’altro, il secondo si affida alla parola del primo. La subalternità è del resto ancora più evidente quando è una donna a oltrepassare la soglia dell’ufficio medico. Un dottore è consapevole di sapere più del suo paziente, così come un uomo si arroga tale diritto nei confronti di una donna, da questo diseguale rapporto, la paziente non può far altro che temere la visita del medico che manipola il suo corpo, che lo osserva con freddo compiacimento, e ne oltraggia la dignità. È in questo ambiente di sospetto e sfiducia che si evolvono le storie delle internate, è tra quei corridoi che avvengono i più temuti abusi. Molteplici sono le cure vessatorie imposte ai quei corpi che, pur entrando sani, finiscono per ammalarsi. Tra queste le invasive prove ginecologiche, la scienza credeva infatti che l’isteria avesse origine dall’utero, e che quindi solo le donne ne fossero affette.
Eppure le cause scatenati non erano mai veramente accolte nella loro cruda autenticità: lo conferma Louise, adolescente che a seguito di un abuso sessuale perpetratole dallo zio, inizia a manifestare crisi e crolli fisici, sintomi che la portano ad abitare quelle sale infestate di morti violente, abusi psichici e pratiche disumane.

Quando una donna viene privata della libertà intellettuale e della libertà politica, le si strappa il potere dalle mani, ma quando la si rende incapace di muoversi, relegandola in uno spazio circoscritto e misurabile, le si sottrae la possibilità di auto-determinarsi. Non conta l’infermità, ma l’immobilità. Un corpo fermo è un corpo dipendente, giudicato incapace di prendersi cura di sé, ridotto a oggetto alla completa mercé maschile.
L’immobilità nel XIX secolo passa anche attraverso gli abiti, primo tra tutti il corsetto, simbolo di un’oppressione che ancora una volta si rivolge solo a una categoria di persone, impedendole di respirare pienamente, rendendosi attivo partecipe di un lento e progressivo soffocamento. È infatti interessante la scena che si sviluppa parallelamente tra Eugénie e Genevieve: entrambe si spogliano di questo indumento, l’una, rinchiusa in isolamento, strappandoselo a forza, l’altra, sfilando con cura ogni laccio, ormai consapevole che la sorella le è vicina.
“STASERA È DIFFICILE DIRE CHI È PAZZO”
Melanie Laurent è capace di far trasparire un pesante senso di staticità attraverso il movimento: le convulsioni che scatenano quei corpi fragili sembrano insieme renderli ancora più deboli e detentori di un’energia rivoluzionaria e liberatrice. Una forma di ribellione ed escapismo dalle catene che le tengono ancorate al suolo ospedaliero.
Il ballo è finalmente alle porte, siamo condotti in una sala spaziosa, capace di ospitare decine e decine di internate e parigini di buona famiglia, incuriositi da queste figure misteriose, mossi da un desiderio di scoperta. Eppure si annida nella scena un senso di inadeguatezza, sembra quasi che le ballerine siano i saltimbanchi di un circo spietato, attrazioni del divertimento borghese. E proprio in quell’istante sospeso, la sottile linea di confine che separa la libertà dalla follia può sovrapporsi in un attimo, trascinando con sé chi non ha ancora scelto a quale lato appartenere.
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